in

Vietato leggere se non credete ai sogni

Lo incontro mentre ci dirigiamo entrambi alla macchina, uscendo da Sangiovese Purosangue, scambiamo due parole, mi chiede se sono un produttore. No, io scrivo. Bevo e scrivo. Lui invece sì, è Antonio Giglioli e la sua azienda è Casale. Mi si illuminano gli occhi, ricordo il suo Sangiovese Riserva 2006, sentito nelle ore precedente, una sciabolata luminosa in mezzo a tanti assaggi, un’energia dirompente in un sorso inarrestabile. I suoi occhi brillano per i complimenti, e si infittiscono i nostri discorsi, finché mi propone di andarlo a trovare l’indomani a Certaldo. Prima di tornare a Siena per i banchi d’assaggio ce la potrei fare. Mi parla di tanti assaggi, vecchie annate. Mi chiede persino se mi piace il Vin Santo. Bene, le aspettative lievitano ad ogni parola. Ci sentiamo domani.

E così mi sveglio nella nebbia che avvolge i colli del Chianti, dove soggiornavo. Esco e l’aria è frizzante, umidiccia ma di un fresco che m sveglia. Attendo la prima visita (già in programma) della mattina, sperando di concludere in tempo per andare a trovare quell’uomo alto e canuto che mi aveva riempito di curiosità con le sue parole, dette con negli occhi due fiammelle da spiritello. Conclusa la visita lo chiamo, s’è fatta tarda mattinata ed ho paura di disturbarlo. Vieni pure, mi dice, e mi da indicazioni che fra interferenze e fretta non immagazzino. Parto, navigatore alla mano, che ovviamente mi manda a fare un giro panoramico. Inizia un viaggio, che a posteriori sembrerà propedeutico a quel che accadrà in cantina. Lambisco il paese di Certaldo, che venendo dai panorami del Chianti Classico mi appare grigia e troppo antropizzata, ma si intravedono boschi e campagne sui vicini rilievi. Su uno di essi mi inerpico, una strada che si perde tra campi di sterpi secchi, lande lunari, la desolazione di un’agricoltura all’abbandono. Inizia un percorso che sembra un’esperienza onirica, un sogno pieno di immagini sfuggenti, stridenti, smozzicate. Man mano che salgo e supero clivi arrivano i boschi, finalmente, a ridarmi fiducia nella natura, gli uliveti, diverse case diroccate che sottolineano l’aria trasandata di questo angolo di Toscana emarginato dal flusso turistico. Con le ruote sfioro le reti di una squadra intenta a raccogliere olive fin sul ciglio della strada, giungo in cima al monte e chiamo Antonio, convinto di essere fuori strada. Mi rassicura e mi dà indicazioni. Sali, scendi, fai un falsopiano, scendi ancora, poi svolta a destra dove c’è l’indicazione Casale.

Finalmente imbocco la stradina, vedo davanti a me un costone di montagna mezzo franato su cui si abbarbica una casa, surreale. Proseguo e sfilo in mezzo alle auto dei cacciatori che stanno ritirando dalla battuta al cinghiale, fra gli ulivi, e appare una casa sulla destra. Vedo dei tini di acciaio fuori, forse ci sono. Non capisco se sia una cantina improvvisata del contadino di turno, la dimora di un artista o la casa di Pippi Calzelunghe. Forse tutte le ipotesi insieme. Attorno alla casa è un tripudio di materiale agricolo di ogni sorta, cassette di olive si alternano ad alberi da frutto, giochi per bambini, arnesi ed una serie di altri oggetti che la mia mente non ricorda, come nelle immagini di un sogno. Penso che potrebbe essere questo il posto, ed un po’ ne ho quasi timore, rafforzato dalla sguardo indagatore di un signore corpulento e quasi calvo che mi osserva dal giardino, così procedo fino in fondo la strada, che si chiude e diviene sentiero. Bene, torno indietro, richiamandolo per avere conferma. La casa che rigurgitava vita agricola era IL posto giusto. Mi parcheggio, finalmente felice di essere giunto a destinazione, e scopro che il signore dallo sguardo torvo era il padre di Antonio. Il sorriso e la stretta di mano mi mettono subito a mio agio e in men che non si dica siamo in cantina, ho un calice in mano, e il sogno continua. Prima siamo sotto una tettoia, tra tini di acciaio, mucchi di damigiane, bottiglie, cassette di olive, macchinari vari qua e là. In questo luogo c’è tutto, ma il posto è evidentemente insufficiente a dare respiro e ordine alle cose, ma in fondo in questo posto l’ordine delle cose, se c’era, è stato sovvertito.

Seguo il mio Virgilio tra i tini, spilla e mi versa il trebbiano 2017. Provo a fare domande sul vino, ma Antonio sembra non volere coprire tutto col suo racconto, con le spiegazioni, riempiendo l’aria di parole e suggestioni. No, lascia parlare il vino, perché in fondo sa che il suo vino è come un essere vivente, e sa trasmettere qualcosa. E quel qualcosa ti fa sgranare gli occhi, e te ne freghi di come è fatto e dei suoi perché. Riesco ad estorcergli qualche informazione, comunque, mentre andiamo da un tino all’altro spillando e bevendo vino. Le sue piante di trebbiano hanno circa 60 anni, potatura a cordone alto, una sorta di casarsa modificata, che consente di lasciare i grappoli riparati. Quest’anno canicolare ha raccolto il trebbiano il 28 settembre. Il 28 settembre! Poi, come fa da anni, fermentazione spontanea in acciaio e macerazione sulle bucce per circa un mese. Quasi 2,5 ettari per le piante di trebbiano, che rendono circa 80 quintali/ettaro, poco più di 4 invece gli ettari di sangiovese, con una parte di vigneto di 110 anni, piantato a prugnolino toscano, franco di piede.

Ma ritorniamo nella magia, nel susseguirsi incalzante di assaggi. Il trebbiano 17 è sale e frutto, dinamico e ancora in movimento. Poi il 2016, che non ha ancora visto aggiunta di solfiti (e così la maggioranza di vini che sentiremo), da due vasche diverse, una esaltante di resine, fiori, olive, ed erbe, saporito e fresco, l’altro appena più disteso e fruttato. Il 2014 è affusolato e sottile, slanciato ed elegante, di tannino aggraziato, fila via come una lama, agrumatissimo, e sulla stessa falsa riga gira il 2011. Stiamo pescando dalle vasche poste all’esterno, per lo più esposte al sole, alcune da diversi anni, ed è lui stesso a dirmelo, io avrei dato per scontato si trattasse di una situazione temporanea. Il trebbiano 2012 mostra l’annata con polpa e frutta gialla, quindi andiamo all’interno e assaggiamo il 2015 (in foto), ancora intriso di carbonica, è un’esplosione di resine ed erbe aromatiche, godurioso e dal colore splendente di ambra. Poi si va in un’altra parte della cantina, da una grossa botte nera di castagno da 20 ettolitri spilla un trebbiano 2004, lì da 12 anni. E’ un vino che ha cambiato pelle, ha messo vesti di velluto, rotondo e pieno, con sensazioni dolci, pur essendo secco, e un tratto ossidativo che torna solo al palato. Si torna al 2009, in botte da 6 anni, che l’ossidazione ancora non la conosce, ma ha tutto il corredo glicerico a riempire la bocca. Infine il 2010, è incisivo e vibrante, ed indugia nel finale su frutta secca e curry, con un rimando mentale a certi chenin dello Jura.

Ci siamo bevuti tutti gli assaggi, cosa strana per me, che cerco sempre di sputare per uscire dalle visite ancora abile alla guida, oltretutto dato che mi aspettavano ulteriori assaggi a Siena, e poi un lungo viaggio di ritorno verso la Romagna. Ma nonostante tutto ho seguito l’istinto, l’empatia verso Antonio ed i vini di Casale, così pieni di energia positiva, non mi lasciavano un briciolo di offuscamento, nonostante fossi a stomaco vuoto da ore. Il tanto abusato termine digeribilità mi torna in mente e sembra qui trovare un senso. Ho pranzato a vino, in effetti.

Ma il viaggio emozionale nel vino non era che al principio. Si passa ai rossi, tutti in prevalenza sangiovese, alcuni con saldo di colorino e canaiolo, ma solo una parte imbottigliata come Chianti, perché la maggioranza dei suoi vigneti sono fuori denominazione per via della linea di confine che taglia il crinale e li confina all’esterno. Un peccato, per la denominazione quanto meno.

Il sangiovese 2017 (in foto), è una spremuta d ciliegia e amarena con una spruzzata di arancia rossa. Il 2016 lo sentiamo da tre tini diversi, ognuno vinificato da una singola vigna, il primo con tannino croccante e naso più compresso, il secondo sottile, ricamato e setoso, il terzo completo di frutto croccante e fiore rosso, gustosissimo. Il 2014 è fiore, erbe fini e melograno, un sangiovese di Lamole sotto mentite spoglie. Il 2012 è in tino di acciaio lasciato alle intemperie da 4 anni, ma a parte una leggera flessione sul colore, è sorprendente per integrità di frutto, affascinante nelle note autunnali di sottobosco, ma esente da ossidazioni. Poi arriva quello che mi propone come il vino per fare innamorare le donne, ma sono io ad innamorarmene. Rosato 2011, anch’esso nella “cantina-uliveto”, che mi lascia di stucco. Fruttino rosso croccante, fiore, idrocarburo, beva agrumata e impeccabile. Ma dove cavolo sono?? Come fa? Bè, chi se ne frega, finché il sogno dura continuo a godermelo!

Sangiovese 2010, solo acciaio (questo all’ombra della tettoia), ha il colore della felicità (qui in foto, senza filtri). Ed anche il sorso non è sa meno, acidità ficcante, tannino puntiforme e diffuso a 360°, rimette in pace chiunque col sangiovese. Il 2009, in legno, tira fuori invece polpa, muscolo e un tannino che al confronto pare più ruvido, ma gran servo della tavola. Il 2007 è l’ennesima sorpresa, appena più percepibile la volatile, che gli dà slancio e spinge una nota resinosa. Ripenso ai suoi tanti coetanei cotti e brodosi, qui c’è frutto e scorrevolezza da vendere, tannino fitto ma assolutamente ammansito, e gran finale salato. Più evoluto sembra invece il 2008, dai toni autunnali. Ricordo poi l’assaggio della Riserva 2006 bevuto il giorno prima, folgorante, vivo come un vino d’annata ma rifinito come una grande riserva che abbia passato il suo giusto affinamento. Elisir di giovinezza.

E a proposito di giovinezza mi stupisce con altri due rossi. Il 2000, di freschezza pazzesca, avrei detto 2002 per l’acidità, ed invece un’annata calda, ancora nascosta in un vino clamoroso, anche in virtù di un tannino golosissimo. Quindi spilla dall’ultima botte da 20 ettolitri, e me lo cede. Qui sento l’evoluzione, i terziari di fungo e tabacco, foglie di tè e sottobosco, ma ancora frutta, con qualche cedimento ossidativo. Bevo ed è un sorso ancora dritto, che non piega la schiena, con tannino soffice, acidità ancora salda, finale di arancia e tè. Mi dice che avrà la mia età. Rispondo che avrebbe una bella età, perché sono un ’82. Si tratta di un’86. L’età di mia moglie. E penso sia il vino della sua annata più buono che ho avuto modo di bere finora (aprendo Bordeaux, Barolo, Brunello, eccetera). Da quando fai vino? Dal 1700, mi risponde ghignando, e mi viene da credergli. Quando hai fatto la tua prima vendemmia? Nel 1969. Ed ha solo 58 anni. L’ho imbotttigliata io stesso, aggiunge, e mi porta nella cantina storica, dove tiene le sue riserve personali. Una pila di bottiglie del ’69 è lì appoggiata alla parete di un muro antico, originale della torre di avvistamento che sorgeva in questo luogo. Si respira un’aria lontana. E sogno di rincontrarci ancora in un altro sogno e bere una di quelle bottiglie insieme.

Vado ad espletare necessarie funzioni fisiologiche e torno per l’ultimo assaggio di rosso. Tannino finissimo, il più bello bevuto in giornata forse, grande allungo, finezza di gusto, frutto, speziature sottili. Che vino senza età sarà? “E’ il blend degli assaggi di oggi”, gli avanzi di calice che avevamo rimesso in una brocca, da usare poi per ricolmare le botti. “E’ sempre il vino più buono di tutti, perché prende il meglio di ognuno”, mi dice. Ed io non posso negarlo.

Avevamo parlato di Vin Santo il giorno prima, me li aveva promessi. Ti faccio assaggiare il peggiore. E preleva dal tino d’acciaio in esterno un 1998. Grande freschezza, note di caffè primarie, poi sfumature sempre sul genere ossidativo, con scorze di agrume. Niente male, per essere il peggio. Vin Santo 1992, da damigiana in vetro presa dalla catasta sotto la tettoia: agrume candito, sale, freschezza dirompente, finale incredibilmente nitido di sedano fresco. Ora andiamo nel caveau, mi dice. Sali su per la scala a pioli, sopra la vasca di cemento. Arrivato su, chinato sotto il soffitto basso, mi fa accomodare su una seggiola. Qui si fa sul serio. Siamo io e lui, le voci rimbombano tra gli spazi stretti ed una vasca vuota che ci fa eco. I caratelli ci fanno da arredamento, i nostri sorrisi sono quadri alle pareti di questa stanza magica. Con la pipa preleva un Vin Santo del 1992 dal caratello, non ne ha abbastanza per contenere tutti i vini che attendono al piano di sotto. Entriamo in un’altra dimensione. Saluto il mondo e lo guardo dall’alto. Tabacco, spezie, cioccolato, resine, esplosione di sapore in bocca. Ma questo strano personaggio che oggi ha deciso di regalarmi un sogno è inarrestabile. Vin Santo 1995, di miele, resine, spezie, benzina e medicinali, potente, lungo. Sembra una pozione magica, curativo, allevia i mali dell’animo, porta via gli spiriti malefici se strisciato lungo i bordi delle finestre di casa. Di certo. Potrebbe servire a battezzare bambini felici, strisciandone un goccio sulla punta del loro naso.

Si va indietro. Vin Santo 1985, non c’è limite allo stupore. Posso dire delle erbe aromatiche, dei balsami e delle spezie, dei mille intarsi medicinali, il cioccolato bianco e gli agrumi, ma sono inutile, non posso trasmettere l’armonia trasmessa da questa roba. Altri 10 anni di salto e sentiamo il Vin Santo 1975. Più andiamo indietro e più sembrano vivi, le sostanza si concentrano, aumenta una dolcezza che è glicerina condensata, e poco zucchero, che risalta e aumenta l’allungo, in un palato che non si esaurisce mai. Pellame, spezie, propoli, per quel che può valere appuntarsi 3 descrittori per un vino che è un’oceano di umori. Infine va sul caratello più logoro, raccoglie alcune gocce da un fondo ormai poco generoso. Gocce scure che bagnano il suo bicchiere e scendono nel mio. Annusiamo queste macchie scure, rapiti. Raccoglile col dito e mettile in bocca, mi dice. Lo faccio senza esitazioni, ogni volta con più minuzia, ripulendo meglio che posso il vetro, impregnando il mio dito di una sostanza magica resinosa, dolce e pungente, viva ed infinita. Quell’odore mi resterà tutto il giorno, nonostante varie lavate di mani.

Scendiamo dalla vinsantaia e torniamo sulla terra. Io devo prendere la strada per Siena, e a breve anche il buon Antonio. Sono sulle ali dell’entusiasmo, pur non sentendomi ubriaco neanche minimamente. Mi fermo a guardare ancora gli ulivi, le viti, e mi incanto davanti alla visione infernale delle guglie dei calanchi di argilla che campeggiano alla mia sinistra. Ci rivediamo qualche ora dopo alla Fortezza, lui dietro al banco, con una sfilata di vini davanti, probabilmente giunto a Siena volando a cavallo di un caratello. Nulla mi stupirebbe di questo personaggio, fantastico custode di tradizione e cultura contadina, che emana passione con poche parole, gli basta il gesto sincero di versarti il vino e guardarti. Nel suo sguardo c’è l’energia di quei vini, e capisci tutto. Grazie, sono sempre più convinto che non fosse solo un sogno, ma non ci giurerei.


Fonte: https://www.iltaccuvino.com/category/regioni/feed/


Tagcloud:

La comunicazione nel mondo del Vino: l’approccio dell’azienda Marchesi de Frescobaldi

I principali mercati asiatici del Vino: intervista con Erika Ribaldi